L’una di notte. Sono disteso su un prato, circondato da fiori di tarassaco, con una macchina fotografica sul petto. Cerco una scintilla di poesia all’interno di un errore consapevole.
L’obiettivo è agganciato al corpo macchina, ma il corpo macchina è appoggiato a un corpo umano. Una singolarità. Per una volta non tengo conto del valore ISO aumentato, del diaframma spalancato e dei tempi di esposizione allungati. Mi concentro invece sul respiro, sul battito del cuore e sullo stato d’animo. Saranno loro le variabili che andranno a influenzare la scrittura dell’immagine nella distanza cosmica. In queste condizioni estreme persino un pensiero più ispirato di altri può avere un ruolo nella resa fotografica.
I diaframmi aperti sono due: quello della reflex, bramoso di luce, e quello nel torace, che accompagna il respiro. Gli occhi osservano un punto luminoso che brilla di luce riflessa, consapevoli che, di lì a poco, lo vedranno trasformato in qualcosa di indefinibile. Un sentimento passeggero, intanto, prova a spiegare la sensibilità a un sensore ottico.
Prendo la mira. Basta una lieve pressione dell’indice destro. Nei successivi trenta secondi, qualsiasi movimento impercettibile avrà conseguenze irreversibili. È il linguaggio fotografico che incontra la grammatica dell’emozione.
Penso. A molte cose. E i pensieri sono più rumorosi del canto delle cicale che riempie la notte.
Arriva l’atteso click. Mi sorreggo al cavalletto per rialzarmi dal prato, così posso dire di averlo usato. Nel display c’è un autografo di luce: una firma nel firmamento.
Volevo fotografare Giove, ma ho trovato un salice piangente.